Non se ne accorgeranno mai, davvero. Non gli interessa.
Una giornata di scontri, e il mondo che si mobilita, e la Francia che decide di mandare rinforzi alla missione, e gli Stati Uniti che domandano al vecchio presidente di alzarsi finalmente dalla poltrona, e l’ONU che chiede che cessino le violenze sui civili, e il vertice della diplomazia europea che intima (sic!) a Gbagbo di affrontare il risultato delle elezioni e dell’incitamento alla violenza degli ultimi quattro mesi, e noi?
Noi, poi, ci lamentiamo di essere esclusi dai vertici europei. Salvo poi smentire, ovviamente. E pubblicare bene in vista la smentita sul nostro bel sito. Bel sito, non c’è che dire. Si capisce molto di come vediamo il mondo, da quel sito.
Io sono sinceramente triste, e preoccupata, per i miei amici sparsi nel Paese, per i miei amici – tanti – sparsi a Abidjan, per quelli con cui non riesco a mettermi in contatto, e anche per qualcuno con cui riesco a sentirmi un po’ troppe volte al giorno.
Sono triste perché la gente comune e perbene, i commercianti di Abidjan e i vecchietti di Duékoué e un’anziana signora di Gloplou – che nessuno saprà mai dov’è ma, credetemi, esiste – che si sono fatti spiegare come, e perché farlo, che sono andati ordinatamente a votare perché la crisi politica finisse, dopo dieci anni, e per la loro buona volontà non sono stati premiati. Tutt’altro.
Sono triste perché potevano starsene tranquilli a prepararsi una bella sauce graine, i giorni delle elezioni, e invece per due turni si sono alzati, hanno camminato, hanno votato e sono tornati indietro convinti di aiutare a far tornare il loro Paese agli antichi splendori, e hanno avuto in cambio una guerra vera, non solo la minaccia.
Sono triste per quei ragazzini che oggi non possono andare a scuola, perché gli insegnanti non possono arrivarci, perché le strade non sono sicure, perché va bene l’amore per le nuove generazioni ma andare incontro a morte certa per strada non porta a niente.
Sono triste per i genitori, i nonni, gli zii, i fratelli maggiori di quei ragazzini che con il loro voto speravano di dare ai piccoli una vita migliore di quella che avevano vissuto gli ultimi dieci anni, e invece no.
Sono preoccupata perché quando senti al telefono gli spari, anche se in lontananza, sai che le persone con cui parli potresti non sentirle più. Che poi per fortuna non succede, ma l’angoscia resta.
Sono triste perché avevamo iniziato un lavoro, e adesso è tutto da rifare. E quando il lavoro è soprattutto aiutare la gente a fidarsi dei proprio vicini, dei colleghi, degli abitanti di un’altra strada o di un altro quartiere o di un altro villaggio, da rifare c’è tanto. Ma tanto.
Magari no, magari la gente perbene e comune ha così tanta voglia di tornare a una vita normale che si lascerà scivolare sopra tutto questo. Magari. Magari.
Sono preoccupata per chi una settimana fa mi diceva “torno a Abidjan domani”, e adesso ha un telefono muto. Magari poi gliel’hanno rubato. Magari s’è rotto, il clima tropicale non fa tanto bene alle robine elettroniche. Ne sa qualcosa il piccolo computer, che ormai funziona quando vuole, e non sa più che potrebbe sfruttare la batteria. Magari.
Sono triste perché mi sento stupidamente in colpa per essere qui, per essere scampata a tutto questo per un pelo, letteralmente. E sono sollevata di sapere che almeno nessuno sta in pena per me come io sto in pena per tanti.
E sono triste, e sono arrabbiata, perché vivo in un posto in cui si parla di persone che vivono tragedie come se fossero loro, le tragedie, come se fossero catastrofi. E potremmo essere noi, al loro posto.
E sono triste perché vivo in un posto in cui finché le persone non diventano una calamità, se hanno un problema, se affrontano una guerra, se sono uccise, ferite, derubate, non ne parliamo.
Non ci interessano.
Non ci sfiora neanche l’idea di quello che stanno affrontando. Neanche se succede appena fuori dal recinto dell’ambasciata. E questo non mi intristisce, mi sconvolge.
Franchement.